Visibile/Invisibile. Merce e informazione. Trasformazioni e dislocazioni

By: Enrico Fravega, Laboratorio di Sociologia Visuale (Genova)

On: 13-03-2017

Photo credits: Massimo Cannarella. Genova. (Laboratorio Sociologia Visuale)

Genova. C’era una volta il porto. E alle sue spalle, una terra di mezzo tra lo scalo e la città dove gli “scagni” si alternavano a negozi e a magazzini; un territorio “permeabile” dove la merce incontrava la città e il lavoro penetrava sulle banchine. Quel luogo, come infrastruttura di connessione, tra urbanistica e logistica si è dissolto. Sparito. Insieme alla merce.
La dinamica di containerizzazione della merce, che a Genova si sviluppa a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ha accentuato la dimensione intermodale del trasporto (che diviene door-to-door, capillare/molecolare) e ha radicalmente ridefinito i luoghi e le modalità del contatto – e dello scontro – tra tessuto urbano e infrastruttura portuale.
Il container si configura come una tecnologia che dà nuova forma alla supply chain, rivelando nuovi rapporti di forza e nuove forme di articolazione tra capitale e lavoro. Un quadro in cui il contenitore – che è “tara”/involucro – assume un ruolo centrale divenendo sia unità di misura (il TEU – Twenty-foot Equivalent Unit­ – come unità di capacità delle navi ma anche come grandezza numerica per la determinazione del ranking delle infrastrutture portuali misura di scala del flusso del commercio globale) sia vettore di informazione codificata e digitalizzata.
Come in un processo di sviluppo fotografico, nel quale ciò che è scuro diviene chiaro e ciò che è chiaro diviene scuro, il container, ha reso visibile, e/o tracciabile, l’invisibile; viceversa ha reso invisibile, o opaco, ciò che prima era “alla luce del sole”. 
Lo sviluppo del traffico containerizzato fa sparire la merce dalle banchine e dal panorama urbano: a) riducendola a puro codice (merce “teorica” ovvero dato amministrativo tracciabile solo sotto forma di bit); b) lasciando “in chiaro” solo il suo feticcio, il contenitore e la sua estetica pop, “Andy Warhol style” (che replica l’oggetto all’infinito alternando colori e nomi di vettori marittimi diversi) e dando luogo a immensi accumuli in pile distribuite su superfici equivalenti a quelle di interi quartieri; c) trasformando radicalmente il lavoro di portuali e terminalisti (in ragione di una marcata tendenza all’industrializzazione delle banchine) e dislocandolo in altri luoghi e in altri momenti.
Di contro, la merce (ri)emerge nei contesti dell’interconnessione tra reti logistiche diverse (marittime, ferroviarie o “su gomma”), nelle procedure amministrative che regolano le fasi di carico/trasbordo/scarico (es. pesatura, controllo, ecc.) e nei momenti in cui la merce varca una frontiera (operazioni doganali). Finestre spaziotemporali all’interno delle quali la merce si ri-materializza per essere classificata e quantificata sotto forma di dato fisico e merceologico.
In questo “gioco” di occultamento e disvelamento, che la containerizzazione ha innescato, l’area di attrito tra logistica e urbanistica viene continuamente rispazializzata: nel disegno delle servitù di transito (es. infrastrutture ferroviarie come il Terzo Valico), nell’abbandono degli spazi ad altre funzioni produttive (es. Erzelli) o sociali (es. Porto Antico); e nei progetti per il ridisegno degli spazi (Piano Urbanistico Comunale, Piano Regolatore Portuale, Blueprint, ecc.). Occorre dunque sviluppare una cartografia spaziotemporale che dia conto degli impatti del container sulla città. E sui suoi abitanti. Una contro-mappa che consenta di recuperare memoria di spazi (di vita e di lavoro) vissuti, perduti e/o caduti nell’oblio e di identificare ciò che il container occulta (merce, lavoro, persone, valore, ecc.) (rivela mentre occulta) accostando e mettendo in risonanza queste informazioni con i piani di trasformazione urbanistica e gli scenari dell’economia globale.